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giorni, momenti e folletti

Ci sono i giorni dell’abbandono. E il momento “folletto”. Come gli uni siano riconducibili all’atro è molto semplice. Troppo. Come la percezione della sfiga (l’utilizzo della parola sfortuna è tanto “educanda” quanto poco rappresentativo).

Leggere, segno dopo segno, quanto attorno non gira è un’arte. La si affina con il tempo. Prima si conoscono i Picasso, e la relativa Guernica (cruccio di ogni insegnante l’arte secondo la quale Warhol quella roba lì, così commerciale, non doveva ricondurla all’aulica pratica che lei, solo, insegna). Poi i Pollock. E l’esplosione, a volte, è meglio.

Il momento folletto, si identifica, solo in un secondo momento. Prima sei troppo concentrato ad alzare lo sguardo al cielo, urlando a lui. Chiedendogli perché ti abbia abbandonato. Ci fosse stato, di tanto in tanto.

Dopo capisci che l’unico assioma che ti permetterà di uscire da quella polvere è soltanto uno, basato sull’interpretazione che i rappresentanti della Folletto hanno fatto del principio “azione e reazione”.

“Se tutto attorno a lei è troppo sporco (azione), non le rimarrà (reazione) che alzare le maniche (questa volta non verso il cielo) e cominciare a pulire”.

N.B. Quanto riportato sopra è la rielaborazione censurata di un momento mediamente isterico, durante il quale mancava solo di reinterpretare la Carmen abbracciato ad una aspirapolvere.

gas, gola e giorno (di ordinaria follia)

Ci sono notizie che con precisa puntualità si ripresentano. Non si aggiornano. Non cambiano. Sono lì. Ed è più che sufficiente.

Ieri, ad esempio, credo di aver letto per la settima volta (in poco meno di due mesi) che i gas emessi da alcuni animali (per lo più bovini), durante la normale flatulenza, contribuiscano a peggiorare l’effetto serra.

Riflettendo su quali siano gli argomenti debbano avere uno sviluppo narrativo circolare, ho cominciato ad addobbare l’avverbio “non” di circostanze. Notizie. E banalità.

Tralasciando tutte le informazioni che necessitano di questa parola per essere collegate ad altre, sul palindromo ci sono inciampato ieri sera intravedendo nello specchio più forme di ingordigia.

Di quel beat, elettro-dance, che percepisci come se non fosse mai sufficiente.

Ebbene. Ieri sono arrivato alla conclusione che tale peccato capitale (ogni riferimento al sistema ecclesiastico e ai sì, non troppo spesso detti, non è puramente causale) si può manifestare in due modalità comparabili con altrettante malattie legate alla gola: bulimia e anoressia.

Nello specifico se è immediato il collegamento che può esserci tra l’ingordigia e la bulimia, da decifrare quell’ossimoro sociale che sposa il desiderio di mangiare sempre di più. Alla necessità di sopravvivere con il meno possibile.

Ci sono persone, e ieri sera ne ho avuto la prova, che per anni fanno della cosiddetta “abbuffata” un vero e proprio vettore per la propria comunicazione. Fissano gli incontri di lavoro per lo più in coincidenza con i pasti. Frequentano gli stessi locali, in precisi giorni, per poter dare alla propria vita sociale una parvenza di normalità. Festeggiano i propri compleanni solo attorno ad un tavolo.

Come se tra loro e i commensali che invitano alla propria tavola ci debba essere un valido motivo per vedersi. Come se la qualità della propria esistenza possa essere misurata solo con il parametro “frequenza”. Come se la professionalità (in questo caso la mancanza di) possa essere nascosta da una scenografia di normale quotidianità.

Tra le due forme di ingordigia, forse, la peggiore è proprio questa. Quella del vorrei ma non posso.